Alessandro Rivali: un poeta

Alessandro RivaliQuando si incontra un poeta di cui si avverte l’indubbia qualità, è sempre una grande emozione, che si desidera comunicare e condividere con quanti sanno veramente apprezzare la poesia. A me è recentemente capitato leggendo di La caduta  di Bisanzio di Alessandro Rivali (Jaca Book, Milano 2010), una raccolta di poesie o, forse, meglio un compiuto poemetto, che supera il sentimentalismo soggettivo dilagante nella produzione poetica attuale per presentare una visione che, partendo dalla storia, sa attingere ad una dimensione esistenziale universale, con una voce inconfondibile, di forte incisività espressiva. Caratteristica fondamentale diventa così un registro che potremmo definire epico, ma non nel senso classico e tradizionale, quanto piuttosto per il fatto che l’eroe è l’uomo singolo, pur nella sua umana piccolezza, contraddistinta dal male e dalla sofferenza, sempre uguale nello spazio e nel tempo, soprattutto sempre impegnato a misurarsi nella storia con una fine, con una caduta, che, però, non è mai completamente tale, perché al di là delle macerie c’è sempre un’attesa ed una speranza.
La storia, appunto, è l’elemento che caratterizza questa seconda silloge di Alessandro Rivali, poeta giovane, poco più che trentenne, alla sua seconda prova poetica, dopo La Riviera di sangue (Mimesis, Milano 2005 e in edizione accresciuta Faraeditore, Santarcangelo di Romagna 2007), con un’attenzione ed una consapevolezza della storia che parte dall’esperienza della famiglia paterna, residente negli anni ’30 in prossimità del Barrio gòtico di Barcellona e di lì fuggita fortunosamente, per scampare alle fiamme della guerra civile, nell’estate del ’36, fino ad approdare a Genova, dove iniziò una nuova vita. Di qui deriva all’autore la consapevolezza che la Storia nella sua universalità sia l’ingranaggio che condiziona e determina la storia di ogni individuo, di ogni famiglia, di ogni gruppo sociale, di ogni popolo e nazione, ma non in senso fatalistico e rinunciatario, ma piuttosto con una consapevolezza profetica che lo porta a guardare la Storia con una fiducia nella Vita che trascende appunto il susseguirsi degli eventi. L’attenzione dell’autore, in questo snodarsi di creazione poetica, definita “visionaria e sontuosa” da Roberto Mussapi ed “epica” da Alessandro Ramberti, va a quei momenti critici della storia in cui qualcosa finisce, ma non è mai una fine in senso assoluto, proprio perché la Vita ha il sopravvento per cui la Storia si rimette in moto, in quanto il suo fine è oltre il tempo in un disegno che all’uomo singolo e anche agli uomini dotati di autorità e potere sfugge, abbiano o meno la consapevolezza di esserne elementi determinanti. Simbolo di ogni caduta storica diventa appunto la “caduta di Bisanzio”, fine di una civiltà dalla lunga e complessa eredità, occasione di tormentosa sofferenza per chi si trovava a spendere la sua personale esistenza lì in quel momento, ma nello stesso tempo passaggio verso un futuro. A fare da corollario, in questa caduta, nella comune esperienza del dolore, della sofferenza e della lacerazione, sempre come stretto passaggio verso il futuro, sono altre esperienze storiche, come Pompei, Persepoli e Atlantide, poeticamente rivissute da Rivali attraverso il massimo di consapevolezza storica nell’attenzione alle fonti, ma nello stesso tempo con un’acuta capacità di penetrazione fantastica e visionaria nelle più nascoste pieghe dell’animo di quanti ne sono stati ad un tempo protagonisti, attori e vittime. Proprio da questa tensione tra dati storici e creatività immaginifica nasce lo stile tutto particolare del poeta, che ricrea la storia ed esprime l’intimo degli individui sulla scena del tempo con una ricercatezza espressiva fatta di tensione lessicale, di creatività sintagmatiche sempre molto forti, in un registro tutto teso da un lato al basso e negativo degli ambiti semantici del soffrire, del patire, del lacerare e del morire, dall’altro disponibile ad aperture che gettino ponti oltre la storia. La caratteristica dello stile poetico di Rivali è il contrasto, tra vita e morte, orrore e pietas, realtà e “altrove”, tra ferrigne e ofidiche rimembranze dantesche e bagliori di speranza che proprio nel magma espressivo tende a consolidarsi in certezze, fino all’approdo ad un silenzio che si carica di mistero e di attese. Questa tensione tra storia ed oltre è massima nelle liriche della sezione Giovanni della Croce, imperniate sulla sofferenza di una fiamma che oltre che tortura è illuminazione di un oltre in cui campeggia la figura dell’Amato (“Paragonava le fiamme / al desiderio per l’Amato”, II) e trova un personaggio emblematico nel poeta Ezra Pound, che valica con la sua poesia la contingenza della personale biografia e della storia per proiettarsi in una dimensione di assoluto luminoso, non ancora pienamente compreso neppure dalla critica, in cui “Dialogava con le forme del vento”.

Leggiamo alcuni testi da La caduta di Bisanzio:

 

Era segno dell’armonia primaria,
come gli occhi di una donna
o le matematiche del cosmo.

Offriva metope vive
per i folgorati in marcia,
i ciechi in catena sul deserto,
che cercavano la via
nell’eclissi delle stelle.

La luce sorgeva dalla gemma Farnese,
incendiava i tori di marmo,
le civiltà ordinate per stanze.

La famiglia intestataria era
terminale di traversate e sangue:
Nilo, Roma, Bosforo e Persia,
molti prìncipi per una pietra
che ardeva nel gelo della storia.

Passato e presente si penetravano
seguendo il pendolo delle capitali,
un pegno della nuova Gerusalemme,
la città senza bruciature o buio,
che brillava sulle mura di diaspro.

Il vento trascinava città
e disperdeva eserciti:
chiedevano l’origine al vento
e il fuoco danzava sulle scapole.

Sono rossi gli occhi dei mistici.
Metti la lingua nella loro brace:
muoverai le sorgenti dei secoli.

Sognava il martire
disfarsi sulla graticola,
un calore di pari misura
nutrire l’ossessione,
il paradigma del poema,
la perfezione delle pagine.

Ritornava la spirale del fuoco,
la cortina delle batterie,
gli spezzoni incendiari
che foravano le cattedrali.

Se un elemento intreccia il desiderio,
ha il delirio del fosforo bianco,
della dentiera dei gas,
dell’aria sugli altiforni,
della fornace che muove i piroscafi.

In quel rovescio di fiamme,
tra colonne di bitume e crateri,
a Bisanzio si concludeva la storia.

La città moriva con il mare.

Il padre osservava il termitaio:
richiamava padri ulteriori,
il Barrio gotico rotto dagli insorti,
una voce entrare nel rogo
e i mansueti seguire il Trafitto.

Lo scenario era concentrico:
ferrame, carraie, carboni,
tronchi di rotaie, presse,
uomini tra gli scorpioni,
l’acciaio a concimare il mare.

Vide termiti sotto i macchinari,
santi salmodiare nel sangue,
tre giovani cantare nel forno.

Il fuoco alimentava visioni:
doveva scrivere le azioni,
l’ardore dei desideri,
il principio ustionante,
che sbrigliava le sartìe
e conduceva alle sabbie d’oriente.

ATLANTIDE

Non avranno più fame né avranno più sete
né cadrà su loro il sole né bruciatura alcuna.

(Apocalisse 7,16).

Raggiunse un luogo di refrigerio:
l’erba era piegata dalla brezza.

Vedeva il fuoco rivoltare città,
i tentacoli esplorarne le cave,
le masse ustionanti avvitarsi
con la furia dei crotali in amore.

Profeta senza intercessione,
contava le vite nel bianco,
perdute nel fiato incendiario.

Visitarono allora i suoi sogni
le molte acque in superficie,
la rugiada del Giardino,
una forza che fecondava la sabbia;
ne ripassava i dettagli, stupito,
osservando vite millenarie
nelle trasparenze dell’ambra.

Automi cotti dal sisma
si liberavano della camicia,
della pelle accartocciata dal fuoco.

Dalla memoria cercavano
salvacondotti e insegne imperiali.

Si profilavano gli spalti di Lhasa,
le mura vergini tra le nubi,
la seta al vento della città di Dio.

Colori e ore in luce senza tempo,
la conoscenza di quanto era stato,
incontrare i cari dopo la morte.

Si affollavano quesiti
sulle pitture del giorno terribile:
trombe a chiedere la fine,
bruciature di tuniche e timpani,
angeli in cammino sulle strade.

Sognava invece un docile richiamo,
quasi un battere di mani alla sera
per richiamare i cani in casa,
un segno di tenerezza
a quanti cercavano Dio nella storia,
implorando luce nella bufera.
Roveti bruciavano senza consumarsi
quando il profeta dialogava con Dio.

Nulla sapeva del suo nome,
se non che era e ascoltava
e volentieri fermava la sua tenda
accanto ai pali di quella dell’uomo,
che masticava l’esilio e la polvere
e come fossero lontane le sorgenti,
la terra dei datteri e del miele.

Le fiamme sembravano avvolgerlo
mentre cercava la voce del padre
sotto il mantello della Polare.
Non si risolveva al diluvio,
allo spasmo di serpe appiccata
che alternava ombra e luce
nella foiba interminabile.

Mentre si spezzavano i sigilli,
sospirava il ritorno del profeta,
il compimento del Deuteronomio,
l’arrivo del Mosé ulteriore,
e poter dialogare da figlio,
senza più diaframma o roveto,
sfiorando con le dita la bocca di Dio.

Desiderava le terre dei Mansueti,
per rivedere l’alternanza delle stagioni
e il sole declinare tra le isole e i pini.

Chiedeva una fissità da mare a mare,
il tempo per scrivere degli astri,
ascoltare Dio nel vento leggero,
che scrollava i rami dalla neve,
come nel più dolce dei Giardini.

Doveva rifondare sui crateri.

Costruire
secondo luce migliore.

Cercare una vita primigenia,
le sfide di Erodoto:
origini, paesaggi e molti fuochi.

Portare giardini sulle acque,
arabeschi di marmo sul mare.

Voleva valicare la calce,
l’orizzonte informe dei Goti.

Fondare la città
dai cento cerchi di mura,
dai terrazzi con i colori delle stelle,
rivestire la varietà dei sogni,
e l’architettura dei desideri.

Ai deserti seguiva l’acqua,
una capitale emersa sui laghi
e donne slanciate nella seta.

Ecbatana, Persepoli,
Timbuctù, Ianua
o Atlantis,
             la luminosa.
Quello che veramente ami non ti sarà strappato.
Quello che veramente ami è la tua eredità.

Ezra Pound
I

Dialogava con le forme del vento
disteso sul freddo della gabbia.

Se l’umidità rodeva le scapole
non potevano cancellare
quanto aveva amato.

Continuava a ripetere il poema,
a inseguire la città del sogno
e le terrazze di quarzo sul mare.

I suoi abitanti camminavano diafani,
tenendo stretta tra le mani
la ghianda di quanto era stato,
senza scorie o polveri
ormai svanite nelle fornaci.
A Mary de Rachewiltz

II

Il profeta osserva il mare.
È la foto migliore: Zoagli, 1967.
Solitario sullo scoglio.

Le acque si separano allo sguardo
elettrico: vortici di scaglie e luce,
nell’orbita gabbie al sole, guerre.

Lo psichiatra confermava
i fulmini della mente,
un perenne stato onirico,
la totale disgregazione del reale,
voci di rovina e contaminazione;
frantumi in un estuario nero.

Ma quella pupilla azzurra
filtrava origine e fine della storia
attraverso la galleria di quarzo.

La città indistruttibile
che pulsava nella ghianda di luce.

Sulle ceneri del libro infinito,
sapeva di avere sempre cercato
di scrivere soltanto paradiso. 
Nella mente la città era acciaio,
senza vento, vespe o calabroni.

Non sangue nelle onde del Nilo,
o grandine dura sui germogli.

Città invisibile e fedele:
mantice che soffiava e cancellava
i segni delle unghie sul sale.

Scriveva per liberare
le aquile delle cattedrali,
placare le occhiaie dei dannati,
portare acqua ai torturati.
La città dei ricordi era di ardesie
scintillanti sulla curva sul mare:
vi erano volti e corrispondenze,
nessun grido senza ritorno.

Acque cancellavano solitudini,
raccordavano in una le mille vite
che ognuno aveva tentato.

Si disfacevano i labirinti,
consentivano visioni aperte,
una direzione rettilinea
che s’involava nel fuoco.
Ricordava lame ruotare sulle teste,
i cavalli alle cisterne di sangue,
l’erba che bruciava nei campi.

Al termine del deserto
vide colui che fu morto e visse,
che parlava con dolcezza
di cieli e terre e tutte le cose,
in luce finalmente nuova.
Gli uomini lasciavano le case
correndo sul mare di cristallo,
dove spirava un vento originario.

Così scendeva la città nuova
a fare superfluo l’arco del sole.

Non più acque stagnanti
o cadaveri rilasciati dai coralli,
ma gioia di rivedere la sposa,
collirio sulla polvere degli occhi.

Si distese sulla piana
circondato dal Tigri e dall’Eufrate,
da mille sorgive d’argento.

Iniziò a ordinare le costellazioni,
a risalire la vertigine della Polare
secondo il riferimento dei Carri.

Contemplava la miriade dei volti,
le ossa del libro di Ezechiele,
i grani della sabbia del mare.

Si asciugarono le piaghe
e i tessuti ripresero vigore,
fasciando a nuovo quanto era stato.

Era conclusa
l’alternanza tra sogno e sangue,
contemplava infine
epicentro e bellezza del fuoco.
 

           

Leggi i 2 commenti a questo articolo
  1. pietro ha detto:

    Invano si affaticano i costruttori se il Signore non costruisce la casa. …E io a lui:” l’ mi son un che,quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando “. Purgatorio Canto XXIV 52-54. …” Apre gli occhi l’Amore e si disfa,nella Presenza pura, l’opacità del mondo “. Basta balbettare. E’ ora di mettere ordine nelle priorita’ della vita. Il senso nell’essere, nel credere,nel pensare,nel dire,nello scrivere,nell’agire e nel fare, è dono di Dio. Non è farina del nostro sacco. ” Io desiderio di luce riflessa “. E’ l’autoritratto di chi scrive. Non serve a nessuno e fa male allo sviluppo integrale dell’uomo continuare a fare sfoggio di cultura. Signore, so di non sapere, aiutami a lodarti e a darti Gloria. Da sempre e per sempre. Se a Te piace.

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