Degli dèi, degli eroi e degli uomini

Pare interminabile il piagnisteo circa l’incapacità del romanzo italiano di raccontare grandi storie, lasciandosi alle spalle la stagione dei referti sociologici, della risata funerea che tutto caricaturizza, dei giochi combinatori e delle dietrologie cosmiche. Curiosamente però, quando un romanzo osa per davvero il colpo d’ala, l’appoggio di un grande editore non lo si trova neppure a cercarlo con il lanternino. Neppure quando – come in questo caso – a sostenerlo ci sono firme come Tullio Avoledo, Giuseppe Genna, Alessandro Zaccuri o Giulio Mozzi.

V. Binaghi, I custodi del Talismano (Sottovoce, 2011)

V. Binaghi, I custodi del Talismano (Sottovoce, 2011)

E così I custodi del Talismano di Valter Binaghi (ed. Sottovoce, pp. 237, € 13,50), dopo aver pellegrinato di redazione in redazione, esce come primo titolo di una nuova casa editrice, il marchio Sottovoce.
E dire che Binaghi non è certo scrittore di primo pelo: di romanzi ne ha già pubblicati otto, portandosi a casa anche belle soddisfazioni di lettori e di critica. Definire “stimolante” il suo percorso sarebbe riduttivo. Redattore della rivista di controcultura Re Nudo negli anni Settanta, aveva accantonato la scrittura per insegnare storia e filosofia nei licei. Per trent’anni. Senza però mai trascurare la passione per il blues: e ancora oggi – 53 anni, moglie e due figli – continua a imperversare con la sua band nella provincia di Milano. Nel frattempo ha ripreso in mano la penna.
Anima un blog ipertrofico, zeppo di stimoli. E tra le altre cose ha scritto, insieme al figlio Francesco, la prima biografia italiana del mitico Johnny Cash, riletta attraverso i testi delle sue canzoni (Johnny Cash. The man in black – Testi commentati, Arcana, pp. 267, € 18,50).
I custodi del Talismano
è un romanzo difficile da costringere in una definizione. Possiede tutta la ponderata precisione di un romanzo storico e al tempo stesso un respiro molto più ampio. Nulla è lasciato al caso, ogni particolare ricostruito sullo studio delle fonti, eppure si osano nominare anche le parole tabù dell’antistoria: «destino», «necessità» e «disegno divino». Qualcosa d’indefinibile pare tracimare oltre l’orizzonte degli eventi.

Il sacro caldaro di Dagda

Il sacro caldaro di Dagda

Diviso in tre parti – la Gallia conquistata dai Romani, la Provenza invasa dagli Alemanni e l’Europa soggiogata dalla peste – affronta tre epoche e tre storie, le storie di tre custodi. Un druido alla ricerca di un segno divino in mondo senza più dèi; un condottiero romano che insegue il sogno dell’Impero mentre dilaga la corruzione cortigiana; un tormentato medico dei corpi alla ricerca della pace dell’anima. Due ferventi pagani e un cristiano rinnegato. Ognuno di loro ha ricevuto in sorte un oggetto enigmatico, un misterioso calice di metallo sigillato da un coperchio, un Talismano che dovrà essere aperto solo nel momento dell’estremo pericolo, quando le forze del male scateneranno l’ultimo assalto contro l’umanità. Se immaginate che il calice sia il Santo Graal, rifate meglio i vostri calcoli: quando lo vediamo comparire per la prima volta nelle mani del druido, infatti, siamo nell’anno 196 a.C. E se pensate che il romanzo sia il solito rompicapo esoterico, tutto leggende e cacce al tesoro, diciamo pure che del Talismano non scopriremo proprio un bel nulla. Appare improvvisamente, come l’emersione di un bianco cetaceo, e altrettanto improvvisamente scompare. Sapere cosa sia, forse non è neppure importante. A questo punto, tanto vale infliggervi pure l’ultima delusione: nessuno dei tre custodi aprirà il calice. Effetti speciali? Zero. Niente apocalittiche manifestazioni della collera divina stile Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta. È pure legittimo chiedersi se quel rozzo manufatto contiene effettivamente qualcosa…

Le aquile della Legione.

Ma allora perché non limitarsi a confezionare un meglio commerciabile romanzo storico? Binaghi scrive con formidabile senso drammatico, prosa asciutta, ritmo lanciato al galoppo, introspezione sanguinante, e le avventure dei tre protagonisti si leggono tutte d’un fiato: che bisogno c’era di tirare in ballo un oggetto inspiegato e inspiegabile come il Talismano? Perché non raccontare semplicemente la storia di suoi tre personaggi?
Forse perché – come viene detto in un brano del romanzo – i talismani sono più efficaci «finché restano chiusi e indecifrati, perché preservano un resto di verità futura a chi dispera nel presente». Disperare nel presente: ecco cosa accomuna le vicende dei tre custodi. Vivono tutti in un’epoca di decadenza e ognuna appare più grave di quella dell’epoca precedente. Assistiamo impotenti alla fine dell’èra degli dèi, al tramonto dell’epoca degli eroi, al tempo degli uomini messi alla prova. Quasi che fosse in atto un depotenziamento inarrestabile, un rimpicciolimento spirituale che lambisce persino le figure più emblematiche di ogni eone: il sacerdote, il soldato e il medico. Tutti i custodi dovranno confrontarsi con una minaccia imminente e decidere se la fine del loro mondo rappresenta la fine del mondo intero, se salvare se stessi è più importante che non opporre una speranza ignota contro il buio che monta all’orizzonte. Tutti saranno costretti a domandarsi se esiste – e che cos’è – ciò che a ogni costo va salvato, preservato e trasmesso all’epoca successiva. Ecco chi sono i custodi: coloro che si sono misurati con la fine dei propri sogni – siano essi l’ordine cosmico, l’ordine mondiale o l’ordine familiare – e tuttavia persistono nell’avere a cuore la sorte dell’uomo, per quanto abissalmente corrotto, per quanto essi stessi toccati dalla corruzione.

La chirurgia nel Medioevo: catarrate, emorroidi e polipi nasali

La chirurgia nel Medioevo: catarrate, emorroidi e polipi nasali.

E il Talismano? Sappiamo solo che continuerà ad essere passato di mano in mano, da una generazione a quella successiva. È il mistero che viene custodito e trasmesso. Anzi, forse è l’atto stesso del trasmettere: è la bussola dell’essenza umana, la sollecita preoccupazione di coloro che ci hanno accolti nel mondo e che noi stessi siamo chiamati ad avere per quanti verranno dopo di noi. È ciò che abbiamo ricevuto e che siamo tenuti a salvaguardare per tramandarlo. Forse è quel tesoro, ermeticamente sigillato eppure inesauribile, che da sempre chiamiamo “tradizione”.

Un assaggio dell’opera

Questo è l’unico villaggio dei sette che non avevo mai setacciato minuziosamente, ma anche qui s’intravede la solita vita, abbarbicata intorno a povere cose. C’è poca gente fuori dalle abitazioni, bambini si rincorrono vociando, l’unico movimento è sul tetto di paglia di una capanna che le piogge recenti hanno sfondato. Tre uomini si adoperano a rimetterlo in sesto, con fasci di paglia nuovi. Dal basso, un vecchio sdentato impartisce ordini sulla posizione dei fasci, che i figli fingono di eseguire.
Passo oltre, rifacendo la solita domanda che oggi per la prima volta mi suona quasi infantile: «Hai mai visto segni antichi sulla pietra, in qualche luogo qui vicino?», e la risposta è la medesima, sempre. Scuotono il capo e mi guardano senza nemmeno sprecare un barlume di curiosità. Del resto, ho fatto quest’ultimo tentativo più per scrupolo che per un residuo di speranza: so bene che i Romani, giunti vittoriosi prima di essere a loro volta scacciati da Annibale, ebbero anni di tempo per estirpare da questi luoghi i druidi e le sacre memorie. Mozzarono il capo al popolo sconfitto lasciando le membra a ripetere i gesti della sopravvivenza resi ormai insulsi, come quelli del serpe troncato a metà che ancora si contorce nell’erba in un’apparenza penosa di vita.
«Hai mai visto segni antichi sulla pietra, in qualche luogo qui vicino?».
La vecchia seduta sulla panca di legno, fuori dalla capanna meschina, solleva il capo dalle braghe che rammendava, e mi pianta addosso due occhi piccoli, che si accendono improvvisamente di un bagliore inquieto. Mi scruta per un lungo istante, poi sembra rassicurarsi e ritorna a cucire.
«Perché vuoi saperlo?», chiede.
«Perché sono un uomo antico. E non c’è più nessuno in questi luoghi che parli la mia lingua».
Ripone il lavoro al suo fianco, sulla panca. Afferra il bastone da terra e si rialza puntandosi, non senza fatica.
Ma adesso il volto grinzoso è sorridente.
«Un druido, sei. Vieni. Ho una cosa da mostrarti».
«È lontano?».
«E ti pare che con questa gamba io possa andare lontano? È laggiù», e mostra col dito una macchia di querce: pochi alberi, a un centinaio di passi dalle capanne.
Ecco, si è fermata. La schiena curva, le mani poggiate sul suo bastone, sta immobile di fronte al suo tesoro in una posizione di guardia umile e solenne. La postura pacifica, gli occhi socchiusi, come se ritrovasse il suo vero posto fuori dalle cure domestiche del villaggio, la vecchietta ossuta sembra confondersi tra gli alberi secchi e ritorti, come fosse uno di loro.
La pietra sporge dal terreno, uno spuntone vagamente ricurvo come la zanna di un gigantesco animale, ciuffi d’erba ingiallita e arbusti la nascondono al passante che non si addentri nel macchione: è alta quanto un bambino, segni e sculture la ricoprono quasi interamente. Mi appoggio alla pietra per saggiarne la stabilità: è infissa profondamente nel terreno, almeno quanto ne emerge. I segni e le sculture sono decorazioni senza gran significato: trisceli, cervi e cavalli, il volto di un dio imbronciato, come svegliato dal sonno per futili strepiti umani.
«Ve n’erano altre di queste?».
«Altre, sì. Tutto intorno – indica roteando il braccio la vasta zona intorno agli abitati – Le hanno tolte i Romani. E quelle rimaste le hanno tolte i nostri uomini, per paura di vendette», e sputa per terra, con ostentato disprezzo.
Erano cippi, posti a contrassegno di un recinto per i sacrifici. Ne ho già visti molti altri, nella mia terra e anche qui, sulle montagne d’Insubria.
«E questa?».
«Questa l’ha salvata la macchia. E un po’ anch’io. L’ho tenuta pulita dal muschio e dalle lordure d’uccello. Vedi? Le figure sono intatte, è come quando la trovai molti anni fa, non avevo ancora marito né figli».
«Sai che cos’è?».
Fa cenno di no col capo.
«E perché l’hai custodita così, allora?».
«Perché è sempre stata qui. C’era prima che io nascessi», dice a mezza voce, e di nuovo socchiude gli occhi.
Ho avuto certo la grande verità, ma non quella che mi aspettavo. La parola degli dei a volte giunge zoppicando, nascosta sotto i panni logori di una vecchierella. Cammina di nuovo davanti a me, o forse dovrei dire zampetta penosamente, quel suo corpo svuotato e rinsecchito, più leggero d’un uccello palustre che salta sull’unico trampolo intatto. Ha cucito negli anni migliaia di brache, separato miriadi di chicchi dalla pula, partorito figli che forse ha già sepolto, eppure il suo destino di animale da monta e da lavoro nascondeva la gemma luminosa di una missione, e ora appare ai miei occhi più nobile di tutti i Celti armati e linguacciuti che ho conosciuto in questa parte di mondo.
Che importa se il tesoro ch’essa crede di custodire è un innocuo cippo indicatore? Forse i talismani sono più efficaci finché restano chiusi e indecifrati, perché preservano un resto di verità futura a chi dispera nel presente. Ora capisco che è stata una follia cercare il Centro del mondo a Midland, o in qualsiasi altro luogo di questa terra. Il Centro non è qui o là, ma ovunque persista la memoria dell’origine. Come nel cuore fedele di questa vecchia, i cui passi strascicati tracciano un sacro disegno che gli stolti di questo mondo, druidi re o contadini, non riconosceranno.
Tu che ne dici, maestro, dalla nube in cui osservi beato le miserie umane come un sogno lontano? Ti sembrerà troppo, o troppo poco, eppure questo pensiero che mi è piombato addosso si fa via via più gradevole e familiare, e mentre sembra ridicolizzare i nostri vetusti misteri mi porta finalmente aria pura.
Lo pronuncio di nuovo a me stesso, e ogni volta mi sembra meno scandaloso.
Forse un giorno il mondo sarà salvato da una madre.

(articolo apparso su ZENIT 11/01/2011)

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