L’ispirazione è decisione (non solo intuizione)

intervento tenuto il 20/9/08 al Festival di Poesia “Canto Libero”

«L’arte dovrebbe essere felicità»: così diceva Paolo VI in un suo discorso del 7 maggio 1964. Ma è davvero così?  Se ci pensiamo bene, specialmente nel secolo trascorso, l’arte è stata espressione di una visione tragica della vita. Come ha potuto Paolo VI, persona certamente fin troppo consapevole dei drammi del secolo, aver detto una cosa simile: «L’arte dovrebbe essere felicità»? Credo che questa sia una sollecitazione molto forte che ci aiuta a porre in maniera corretta la questione dell’ispirazione.

Inizio con una citazione del poeta polacco Adam Zagajewski, che ha definito l’ispirazione come «un certo stato mentale, eccezionale e straordinario», che ci permette di «scrutare il mondo attentamente e ardentemente». È una bella definizione: l’ispirazione non è pura emozione, né puro sentimento, né pura astrazione, ma vera e propria forma di conoscenza attenta e ardente del mondo. Lo scriveva già T. S. Eliot nel 1920 a proposito di Dante. La poesia, se autentica, è un movimento di conoscenza piena di affetto. Proprio questa capacità di conoscenza «ulteriore» trasforma l’ispirazione, scrive Zagajewski, «in una torcia fiammeggiante che passa di mano in mano» dallo scrittore al lettore.

A questo punto, però, il poeta polacco scorge un’altra questione, intimamente legata a quella dell’ispirazione, forse ancora più radicale. Infatti egli nota che «l’ispirazione è dopotutto quasi puramente positiva, è molto vicina all’incarnazione della gioia». Ed ecco una consonanza con ciò che ci aveva detto Paolo VI. Tuttavia qualcuno potrebbe subito obiettare: «Su quale pianeta vivi? Ai giorni nostri, un tipo di ironia bruciata dal dolore è, probabilmente, il materiale più spesso utilizzato in poesia»! Ecco dunque la domanda: l’ispirazione è gioia o malinconia?

«Nell’epoca della notte del mondo»
Guido Ceronetti, poeta, saggista, direttore della Compagnia del «Teatro dei Sensibili», curando l’antologia poetica dal titolo Siamo fragili, spariamo poesia  ha ravvisato in alcune dense e cupe parole di Heidegger, ispirategli dalla lettura di Hölderlin , il compito della poesia: «Nell’epoca della notte del mondo, l’abisso del mondo deve essere sperimentato e patito, e per questo bisogna che taluni esseri tocchino il fondo dell’abisso» . I poeti toccano questo fondo.
Ecco, dunque, dove si manifesta l’essenza della poesia, ecco dove si misura la sua forza e trae la sua ispirazione: sul suo avvicinarsi «al fondo dell’abisso», espressione che sembra essere mutuata da Baudelaire (Le voyage). Esso è una sorta di «viaggio al termine della notte», come direbbe Louis Ferdinand Céline. La vera poesia dunque è poesia del difetto, cioè dell’indigenza e della penuria, della fragilità, dell’abisso, della notte, del «fondo». È acuta capacità di ascoltare il dolore. E così Ceronetti nella sua antologia raccoglie immagini di questo compito: il canto dell’abbandono di Giuseppe Ungaretti, la voce ammutolita di Anna Achmàtova, l’amore che non ti è stato dato di Patrizia Valduga, le vicende di dolore di Kostantinos Kavafis, le ondate di nebbia brune di T. S. Eliot, i gelidi venti di Georg Trakl, il deluso ritorno di Salvatore Quasimodo, il rigetto della vita di Antonin Artaud, il rimpianto di Umberto Saba. L’elenco delle voci che pescano al fondo dell’abisso notturno potrebbe proseguire ancora a lungo .
Mi chiedo però: è tutta nell’«abisso della notte» l’esperienza dell’uomo sulla terra?

Non solo notte: lo stupore
È possibile andare alla ricerca di un’altra poesia, quella che faccia appello ora allo stupore del mondo, ora a un’ostinata speranza, ora alla ricerca di una strada praticabile, ora all’intuizione di un significato. Che cosa potrebbe esserci di più vero e alto della parola poetica, per metterci a contatto con quanto di più autentico e profondo è nel nostro esistere? Il semplice fatto di esistere – che vi è di meglio?, scriveva Walt Whitman nel suo Canto di me stesso.
E a lui possono fare eco i tanti versi che cantano piccole ma vere gioie quotidiane di Saffo e Anacreonte, l’incantamento delle Rime di Dante; il divino benessere di Goethe e la Speranza, occhi di luce di John Keats, la stagion lieta leopardiana e la vita nuova del Tommaseo, la bellezza cangiante di Gerard Manley Hopkins e il raggio di sole di Arthur Rimbaud, l’aroma forte del mattino di Rainer Maria Rilke e la pascoliana pace della sera, il mondo leggero di Dino Campana e la felicità fatta di nulla di Camillo Sbarbaro, la gioia d’essere giovani di Attilio Bertolucci e il gusto di questi ultimi anni avuti in premio di Luciano Erba… La poesia, anche in questo caso, è esplorazione di un abisso, che però non è un baratro, e nel quale è dolce il naufragare : esso non è gorgo oscuro, ma freschezza sorgiva.

L’uno e l’altro abisso
Il gorgo oscuro e la freschezza sorgiva; la percezione del naufragio e lo stupore della salvezza: sono abissi in radice differenti, opposti, ma un abisso chiama l’abisso (Sal 42,8). È la loro intuizione a dare corpo all’esperienza poetica. Senza questa intuizione, l’esperienza poetica diverrebbe un gioco fatuo, una combinazione di parole e figure, un passatempo.
L’uomo che pensa la propria origine, cioè che si pone di fronte all’origine di tutto ciò che è, si ritrova sull’orlo di un abisso e si chiede: «La realtà su che cosa poggia e a che cosa è appesa?» . La realtà è, ma avrebbe potuto benissimo non essere. Allora a questo punto appare evidente l’ambiguità con cui il reale viene vissuto. L’uomo, cioè, si rende conto di venire dal nulla e questa coscienza può provocare o una sensazione di un’armonia con il mondo oppure, al contrario, una radicale disarmonia, un disagio di essere.

Nel primo caso la realtà è compresa come dono e appare all’alba, che rivela le cose con la loro freschezza dell’origine . Una splendida pagina del filosofo Luigi Pareyson descrive, meglio di altri commenti, questa comprensione del reale: «Lo spettacolo della realtà è allora come assistere all’alba del mondo: s’apre la via all’incantato stupore di chi è come diventato contemporaneo della creazione e partecipe della compiaciuta soddisfazione divina» . Ed ecco la meraviglia e l’ammirazione, così intensamente anche se sobriamente descritte dai filosofi dell’antichità, da Platone a Plotino, ma perfino, il brivido di sgomento, come lo sbigottimento di Pascal di fronte agli spazi infiniti, o l’insondabile «baratro della ragione» di Kant, e il suo senso del «sublime» di fronte all’infinito e alle soglie dell’eternità.

È possibile, tuttavia, privilegiare l’abisso dell’angoscia: è la situazione in cui l’uomo si sente spaesato, si percepisce nel mondo come se non fosse «a casa propria», come se fosse «gettato» in questo mondo e abbandonato a se stesso: il velo della malinconia si stende sulla visione, che assume toni scuri. Allora la realtà e l’esistenza, «invece di mostrare il volto amico della sorpresa e del dono, appaiono in una prospettiva ostile, come qualcosa di misero e gramo, di inviso e non voluto, di non desiderato né desiderabile» . Nasce il sentimento dell’esistenza come condanna e prigione, come rincrescimento e rammarico, come rimpianto o anche ripugnanza, secondo ciò che mostra il ricorrente motivo del «non fossi mai nato» da Sofocle a Giobbe, fino all’esistenzialismo. Conta le gioie che le tue ore hanno visto, / conta i tuoi giorni privi d’angoscia, / e sappi che qualunque cosa tu sia stato, cosa migliore è non essere, ha scritto Lord Byron in Euthanasia.
Le due situazioni affettive fondamentali, la consolazione e la desolazione, lo stupore e l’orrore, possono coesistere nella stessa coscienza umana e dunque anche in quella poetica. Il poeta che scrive i versi Io sono bile, son bruciato nel cuore è lo stesso Gerard Manley Hopkins che ha scritto di sé questo aggeggio, gioco, povero coccio, citrullo, truciolo, diamante immortale, / è diamante immortale, lodando la creazione e rendendo gloria a Dio per le cose chiazzate – per i cieli d’accoppiati colori come vacca pezzata; / per i nei rosa in puntini sulla trota che nuota . Il poeta che ha affermato che Amaro e noia / la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo è lo stesso Leopardi dolce naufrago nel mare delle immensità autore dell’Infinito. Anzi le due reazioni opposte sono inscindibilmente legate: non c’è stupore, meraviglia, gratitudine, se non con la possibilità dell’orrore, dell’angoscia, della disperazione, e viceversa.

Ecco, dunque: se la poesia colloca il poeta (e il suo lettore) – ora drammaticamente ora soavemente – sull’orlo dell’abisso della sua origine, del suo inizio, spingendolo verso una conoscenza più profonda e radicale di se stesso e della realtà. L’ispirazione conduce il poeta e l’artista su quell’orlo abissale al mistero della sua scaturigine, come ha scritto Karol Wojtyła, in un verso de La sorgente . Ogni vera poesia, prima di essere una riflessione sul presente e sul destino dell’uomo, è sempre anche una meditazione in immagini sulla sua origine, sul suo principio e fondamento originario: l’insensata infondatezza o la stupefacente gratuità. Da qui nasce l’ispirazione. Dall’origine.

Una scelta di abisso. L’ispirazione come decisione
A questo punto però si può avviare una riflessione ulteriore, che comprendiamo leggendo alcuni versi di uno dei cosiddetti «sonetti terribili» di Hopkins dal titolo Carrion Comfort (Conforto della carogna): No, non farò banchetto di te, Disperazione, conforto da carogne; […], né stremato griderò: non posso più. Io posso; / posso qualcosa, spero, desidero che il giorno venga, non scelgo il non essere . Il poeta si sente sterile, inutile. Potrebbe scegliere di non essere (not choose not to be), cioè preferire di non essere stato a questo mondo, così come fece Byron in Euthanasia. Tuttavia, giunto all’estremo grido I can no more, ad esso oppone l’incrollabile potere che gli resta: I can.

Che cosa significa questa decisione? Che la poesia può essere anche testimone di una scelta tra due visioni della realtà e dell’esistenza, tra due modi di sentire la vita e l’essere stesso, tra la lingua della malinconia e quella della lode. L’ispirazione, allora, diventa non solo condizione che raggiunge il poeta superandone la volontà, ma anche provocazione alla scelta (to choose, scrive Hopkins, appunto) rigorosa, giunti sull’orlo dell’abisso, di una visione del mondo e di una lingua che la incarni.

Allora c’è forse da sperare oggi, secondo i versi di Bartolo Cattafi, in una poesia che ribalti la pietra pasquale / il lato tombale delle cose, che collochi la nostra crosta di terra, la nostra sosta d’insetto, cioè la nostra finitudine, nel divampante segreto del papavero, nel mistero dell’essere che si apre generoso come un abisso. Ecco il luogo dell’ispirazione: quel divampante segreto.

Leggi i 6 commenti a questo articolo
  1. Maura Gancitano ha detto:

    Magnifico. Non ci crederai, ma è proprio quello che mi è capitato di pensare in questi giorni (studiando antropologia e leggendo/vedendo “cose” di/su DFW)!

  2. Rosa Elisa Giangoia ha detto:

    Al “magnifico” di Maura io aggiungo (per variatio”) MERAVIGLIOSO!!! Potremmo dire che la parola poetica è profetica: si tratta di un annuncio, non di un dialogo.

  3. Alessandro Iapino ha detto:

    Bellissimo e preziosissimo. In particolare quell’ultimo passaggio sull’intuizione come decisione, come scelta tra due abissi. Chissà se Obama (e poi Veltroni) sapevano cosa citavano quando sceglievano WE CAN come proprio slogan elettorale.

    http://alessandroiapino.blogspot.com/2008/09/i-can-wish-day-come.html

  4. Maurizio C. ha detto:

    behh…
    DFW la pensava così:
    L’ironia e il cinismo erano quel che ci voleva contro l’ipocrisia americana degli anni Cinquanta e Sessanta. La cosa grandiosa dell’ironia è che seziona ogni cosa e poi la guarda dall’alto per mostrarne le tare, le ipocrisie, le scopiazzature […] Il sarcasmo, la parodia, l’assurdo e l’ironia sono modi efficaci di smascherare la realtà e mostrarne la sgradevolezza, ma il problema è: una volta che abbiamo fatto saltare le regole dell’arte, e dopo che l’ironia ha svelato e diagnosticato le brutture del reale, a quel punto che facciamo? L’ironia è utile per sfatare le illusioni, ma in America le illusioni le abbiamo già sfatate e ri-sfatate […] L’ironia e il cinismo postmoderni sono ormai fini a se stessi, sono il parametro della sofisticatezza hip e dell’abilità letteraria. Pochi artisti osano parlare di altri modi di porsi per risolvere ciò che non va, perché temono di sembrare sentimentali e ingenui agli occhi degli ironisti stanchi di tutto. L’ironia è stata liberatoria, oggi è schiavizzante. In un saggio ho letto una bella frase, diceva che l’ironia è il canto dell’uccellino che ha imparato ad amare la propria gabbia. Non c’è dubbio che i primi postmodernisti e ironisti e anarchici e assurdisti abbiano prodotto cose egregie, ma il guizzo non si passa da una generazione all’altra come il testimone della staffetta, il guizzo è personale, idiosincratico […] Dai giorni di gloria del postmoderno abbiamo ereditato sarcasmo, cinismo, una posa annoiata maniaco-depressiva, sospetto nei confronti di ogni autorità, sospetto di ogni limite posto alle nostre azioni […] Devi capire che questa roba ha permeato la nostra cultura, è diventata il nostro linguaggio, ci siamo dentro a tal punto da non capire più che è solo una prospettiva, una tra le tante possibili. L’ironia postmoderna è diventata il nostro ambiente.
    […] Tutta l’attenzione e l’impegno e lo sforzo che come scrittore richiedi al lettore non possono essere a tuo vantaggio, devono essere a suo vantaggio […] Un’opera davvero grande nasce probabilmente da una volontà di svelarci, di aprirci a livello spirituale ed emotivo in un modo che rischia di farci provare davvero qualcosa nel farlo. Significa essere pronti a morire, in un certo senso, pur di riuscire a toccare il cuore del lettore.

  5. annamaria immesi ha detto:

    L’ispirazione e’ secondo me come un piccolo seme nato dal nulla,un ricordo,un odore un sapore,un’immagine che a volte come una farfalla,avolte come un’ape laboriosa ti danza intorno ,finche’ come un frutto maturo si fa cogliere sotto forma di pensiero e nasce una poesia ,un racconto, una storia che e’ sempre una parte di te. Il lettore attento si accorge di tutto e se le parole nascondono una storia vera si tratta di perle dell’anima,nate a volte dal dolore o dalla felicita’ ma sempre autentiche emozioni capaci diraccontare la vita

  6. giovanni spinicchia ha detto:

    Grato per le note sull’ispirazione di cui ricchi sono gli interrogativi dei discepoli che seguo durante i percorsi come insegnante in discipline artistiche.

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