Il pannolone del re della mafia

E un piffero suonava in me topi e topi che non erano precisamente ricordi. Non erano che topi, scuri, informi, trecentosessantacinque e trecentosessantacinque, topi scuri dei miei anni, ma solo dei miei anni in Sicilia, nelle montagne e li sentivo smuovere in me, topi e topi fino a quindici volte trecentosessantacinque, e il piffero suonava in me, e così mi venne una scura nostalgia come di ricevere in me la mia infanzia.

Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia

PannoloneE ora aspettiamo che u tratturi faccia la stessa fine di Saddam, riscagliato a terra, da icona mitica tornerà un piccolo uomo di neanche un metro e settanta, un uomo che ha governato l’isola triangolare e i destini ad essa legati per quarant’anni.
La Sicilia, i siciliani si sono sentiti abbandonati. Da sempre, dallo Stato, dai vari politici che hanno fatto incetta di voti e ci hanno lasciato soli. Sempre di più. Compriamo l’acqua per cucinare pure un tegamino di pasta. Ci mancano i servizi minimi. E il lavoro è un’utopia. E ora la precarietà a cui hanno consegnato il nostro futuro farà il resto. Il “posto” diventerà il nostro sogno proibito. Andremo avanti, per inerzia. E la cultura? Che farà la cultura scacciasofferenze?

Che possa fare davvero qualcosa non lo credo più dal ‘92. Sono tredici anni che ho perso ogni speranza. Perché non si può far saltare un’intera autostrada per cancellare chi voleva fare davvero qualcosa. Solo perché Falcone l’amava irrimediabilmente questa terra. Hanno fatto esplodere un pezzo di autostrada, il Giudice tornava in volo da Roma, mette piede a terra, decide di guidare e si vede la strada sparire, l’asfalto polverizzato. Una catastrofe che presto hanno avvolto nelle lenzuola. Le loro idee cammineranno sulle nostre gambe, l’abbiamo gridato. L’abbiamo scritto sulle lenzuola. Le lenzuola. Sempre le lenzuola. Che prima stendevamo per far vedere che la nostra sposa era arrivata illibata. Sangue di verginità perdute, speranze perdute. Sempre sulle lenzuola. Che sbiancate dal sole assomigliano a vecchi sudari. Sindoni di civiltà perdute. Lenzuola e lì, dove il Giudice perse la sua battaglia, hanno messo un doppio obelisco. Una minchia di pietra che si incula il cielo.

Intendiamoci, Che la cultura possa fare qualcosa ne sono certo, ma si tratta di vedere che tipo di cultura, sia essa anche quella anti-mafiosa che striscia subdola arricchendosi di arrocchi stilistici che a poco o nulla servono, forse solo a sollazzare la semiotica, tipo Cuffaro che dice: “La mafia fa schifo” su cartelloni tre metri per sei.
Rileggo spesso gli articoli di Pippo Fava:

“Voglio fare un discorso corretto e sereno sui siciliani, premettendo naturalmente che io sono perfettamente siciliano. Un discorso sulla stupidità dei siciliani. Noi affermiamo spesso di essere straordinariamente intelligenti, quanto meno di avere più fantasia e piacere di vivere, rispetto a qualsiasi altro popolo della terra. Non è vero! La storia è là a dimostrarlo. Da migliaia di anni siamo semplicemente terra di conquista, gli altri arrivano, saccheggiano, stuprano, costruiscono qualche monumento, ci insegnano qualcosa, e se ne vanno. Noi ci appropriamo di una parte di quella civiltà, a volte diventiamo anche i custodi del tempio, in attesa che arrivi un’altra ondata saccheggiatrice. Siamo quasi sempre colonia per incapacità di essere veramente popolo. Presi i siciliani ad uno ad uno, può anche accadere che taluno riesca ad esprimere (nella poesia, nel delitto, nella finanza, nell’arte) attimi di ineguagliabile talento. Sono quelli che ci fottono, che ci danno l’impressione, spesso la certezza, di essere i migliori. Nella realtà, presi tutti insieme, siamo quasi sempre un popolo imbecille.”

Questo lo scriveva nel 1983, ventitré anni dopo siamo qui, a gridare davanti alle telecamere “Bastardo, bastardo!” per poi accettare in complice silenzio una vita che nasce già segnata.
Ti striscia addosso, nel mercimonio elettorale che continua anche fuori dal seggio, nel do ut des, nel rispetto solo per i vincitori. Ci riempiamo la bocca con l’isola che diventa sovente metafora del mondo, metafora che ingloba e fa seccare ogni discorso critico serio.

Nel 1992 le cose, anche se per poco, cambiarono, quelli che per secoli erano stati semplicemente gli “sbirri” divennero “a polizia”, poi però la pace del papavero calò di nuovo e i ragazzi che andavano in motorino senza casco rifecero il vecchio gesto dell’indice e del medio verso il naso, gridando unanimi: “gli sbirri!”. Basta guardare il documentario “la mafia è bianca” per capire qual era la percezione di Provenzano tra le strade. Tutti quelli intervistati, che vedo ogni giorno venire qui, al terzo settore del Comune di Bagheria, dicevano che U Zu Binnu era un benefattore, un uomo giusto.
Riecheggia quella che fu la polemica all’uscita del primo capitolo della trilogia del Padrino, si scrisse un Nilo di articoli contro la moralità del vecchio Vito Corleone.
La risposta è sempre quella: tutto è melodramma in Sicilia. Anche la cattura del “re della mafia”.

La percezione del fenomeno mafioso è qualcosa d’innato, come diceva qualcuno per il linguaggio. La mafia non è quella che spara, è un evento che t’accompagna giorno dopo giorno, in ogni frangente.

E’ la banconota da inserire nel certificato per accelerare i tempi burocratici (una storia bellissima della Disney rendeva pienamente lo spirito: Paperino Portaborse di Giorgio Pezzin e Guido Scala,Topolino 1690), è l’acqua che non arriva mai, sono i treni che sembrano davvero carri bestiame, è il poliziotto che lascia passare il delinquente che guida senza casco, senza assicurazione, senza targa e, senza nessuna dignità, il milite fa la multa al figlio di nessuno che ha solo una lampadina fulminata.
E’ il senso di impotenza, la stasi suprema. Le targhe alla memoria non fanno ricordare nulla, i fiori che poggiano nei luoghi della guerra di mafia anno dopo anno li lasciano marcire al sole. Questo senso d’abbandono è ancestrale, ad esso dovrebbero rivolgersi i futuri governi. Al problema della terra, egregiamente sintetizzato nelle “maledette arance” di vittoriniana memoria. I giovani gridano sin quando possono che non si ridurranno mai come loro, quelli che li hanno preceduti. Gridano, poi l’urlo si smorza e quando qualcuno gli ventila la possibilità di un seppure precario impiego dimenticano gli ideali, arrotolano le bandiere e con l’etichettatrice Dymo tracciano il segno tra le utopie del passato e la Necessità, la vera dea della Sicilia che ci spinge ai più ignobili compromessi.
Amici miei che gridavano più forte degli altri hanno scelto il bavaglio per un posto alla Regione o alle Poste, anche se solo per sei mesi.
(questo pezzo è nato su Vibrisse, ringrazio i lettori intervenuti)

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